Riceviamo e pubblichiamo la lettera del Dottor Antonio Cordoni sul tema in oggetto
ALCUNE RIFLESSIONI SULLA SANITA' ITALIANA
Da tempo ho l'impressione che il sistema sanitario italiano mostri difetti e carenze, sebbene i risultati positivi sulla riduzione della mortalità e sul controllo delle più serie patologie siano nel complesso soddisfacenti.
I problemi si evidenziano soprattutto nel rapporto fra medici e pazienti e fra pazienti e strutture sanitarie, generando una strisciante sensazione di insoddisfazione. Questa sensazione è in stridente contrasto con gli scopi dell'attività di cura, che è sollievo dalla sofferenza e dal timore di non vedere adeguatamente considerati i propri problemi di salute. Vari tentativi e aggiustamenti organizzativi non hanno avuto risultati sostanziali.
Lo spunto per queste note mi è venuto dalla risposta del Prof. Alfieri all'ultima domanda dell’intervista pubblicata sull'ultimo numero di Brescia Medica: ''il paziente si deve fidare e la fiducia si costruisce con il dialogo''...''devi conoscere bene il malato, le sue caratteristiche peculiari''...''tutto
questo funziona se ci parli, con il paziente''. Queste parole vanno alla radice del problema.
Pur avendo svolto la mia lunga pratica medica in ambiente ospedaliero, ho sempre pensato che la figura fondamentale del sistema sanitario sia il medico di famiglia (detto attualmente anche medico di base, con sfumatura anche involontariamente riduttiva). In realtà il medico di base è quello che getta le basi del successivo percorso clinico, individuando all'esordio gli eventi patologici della popolazione di riferimento. Ed è proprio partendo dal suo ruolo che si può migliorare il rapporto medico-paziente e quindi il sistema sanitario in generale.
Da quale evento inizia questo fondamentale rapporto? Una persona passa, più o meno rapidamente, da una sensazione di tranquilla normalità riguardo al proprio stato di benessere e di salute ad una sensazione di malessere e di disturbo. Se il problema non è banale o di breve durata questa persona, ormai ''paziente'', si rivolge al proprio medico di famiglia. E questa persona è l'unica fonte che ha una reale conoscenza dei propri disturbi. Purtroppo, per ovvia ignoranza dei termini adatti a descriverli essi sarebbero inutilizzabili senza l'opera del medico; quest'ultimo con domande ''tecniche'' trasforma queste confuse sensazioni in quelli che noi medici chiamiamo ''sintomi'', cioè in dati (oggi i dati sono molto di moda!) che possono essere inseriti negli schemi di patologia che il medico ha appreso nel corso di studi.
Questa azione, detta correttamente anamnesi, permette di superare il muro che sempre ostacola la comunicazione fra due individui, ma soprattutto permette (non solo secondo me, ma secondo i più prestigiosi manuali di medicina) di formulare le più fondate ipotesi diagnostiche che orienteranno il futuro percorso clinico. Orienteranno l'esame obiettivo verso l'apparato più probabile sede dell'alterazione patologica. Orienteranno la scelta degli esami di laboratorio e di quelli strumentali, evitando quelli non necessari (che allungherebbero inutilmente le liste di attesa). E soprattutto di questi esami orienteranno l'interpretazione, fornendone l'indispensabile base clinica.
Ma il vero e fondamentale vantaggio di questo colloquio clinico è la fiducia nel medico, che il paziente acquista, vedendosi adeguatamente considerato e valutato (come dice il prof. Alfieri). E la fiducia è il primo fattore di cura.
Tutto quanto descritto non ha (o non dovrebbe avere) nulla di speciale: è la medicina clinica, che è più importante di ogni progresso tecnico. L’unico problema? Richiede tempo, un tempo necessario. Basta far mente locale: per definire un dolore, sintomo principe di malattia, sono necessarie circa quindici domande, senza tener conto di eventuali richieste di precisazioni e chiarimenti. E il sistema attuale ha eroso fortemente in vari modi quel tempo che il medico può dedicare alla clinica e alla sua base, la semeiotica. Per fare un esempio, leggevo recentemente che un medico di famiglia riceve da quaranta a sessanta contatti al giorno di vario tipo, molti di tipo digitale (sms, WhatsApp, e-mail).
Al contrario del contatto telefonico, che comunque è un colloquio e permette in breve tempo di definire l'entità del problema, i contatti digitali sono unidirezionali e per ciò stesso poco utili. Dopo adeguate motivazioni e spiegazioni ai pazienti, questi potrebbero apprezzare i vantaggi di una loro riduzione sostanziale, per fare spazio alla vera attività medica.
Una seconda modalità di recupero di tempo ''clinico'' per il medico di famiglia si potrebbe basare sulla rivalutazione del tipo di pazienti che ora si affidano al medico, pur essendo pauci- o a-sintomatici. Mi riferisco agli ipertesi e ai dislipidemici. Questi ''pazienti'', dopo la diagnosi di patologia, non richiedono monitoraggio clinico ma solo di laboratorio o strumentale. Come è attualmente in uso per i pazienti diabetici, questi asintomatici dovrebbero essere affidati a centri dedicati ai rischi cardio-vascolari, che li controllerebbero secondo protocolli scientificamente accettati, evitando un eccesso di esami spesso causati da ansia o immotivato timore. Ovviamente il medico di famiglia sarebbe in costante contatto col centro e gli stessi pazienti si rivolgerebbero al medico in caso di comparsa di sintomi o di effetti collaterali delle terapie.
Le modalità di ricupero di tempo ''clinico'' sopra descritte sono alcuni esempi, ma credo che si potrebbe valutarne altri tipi. L'importante è riconoscere il problema del ripristino del vero rapporto medico-paziente, che non può prescindere da quanto affermato dal prof. Alfieri: PARLARE COL MALATO.
Dottor Antonio Cordoni