FORUM - martedì 13 ottobre 2020 Hanno partecipato:
Balestrieri: «Siamo di fronte a una nuova fase, incalzata da problemi - come la ripresa dei contagi, le diagnosi e i tracciamenti, la gestione di positivi e contatti, le scuole, la vaccinazione antinfluenzale - in cui la medicina del territorio è chiamata a risposte urgenti. Quali le esigenze più avvertite, le difficoltà e le proposte?». Lonati: «E’ stato molto faticoso portare avanti le cose negli ultimi mesi, e l’elemento più preoccupante è stata l’assenza di una capacità di coordinamento adeguata. Questa epidemia continua ad evolvere ed è necessario individuare le risposte, affinchè nessuno le debba trovare da solo. Finora la sensazione è che fra le tante comunicazioni, formalmente ineccepibili, la responsabilità sia stata scaricata sul singolo medico. Brignoli: «In realtà un’evoluzione delle cose c’è, anche se non così veloce. Il Siss ad esempio si è allineato mettendo le agende a disposizione dei medici. Vertua: «Come pediatri abbiamo avuto molti più problemi rispetto ai MMG nella diagnosi Covid, perché il bambino spesso non ha sintomi o è paucisintomatico. Le linee guida dell’ISS in questo senso sono demenziali, perché valorizzano la febbre, che è fondamentale nell’adulto, mentre nel bambino sotto i 6 anni non è un sintomo importante, e i piccoli presentano anche 6 o 7 raffreddori/tossi in un inverno. Gozio: «La medicina generale è stata colta di sorpresa all’inizio della pandemia, sarebbe deleterio esserlo anche in questa fase. Non è tanto la paura di non avere Dpi o linee guida, ma la confusione, e il fatto che non ci sia stato coordinamento nell’emergenza. Martire: «Il MMG è in prima linea, e si trova ad affrontare i problemi più diversi: si pensi solo agli adempimenti burocratici per i lavoratori, con l’Inps che dopo 8 mesi ha chiarito cosa considera per “isolamento”. Per non parlare del tema odierno delle vaccinazioni antinfluenzali: ancora non si sa quando arriveranno, si dice che la disponibilità sarà di 20-25 dosi per medico, dovremo sorteggiare i malati che ne hanno diritto? Rossi: «Il territorio è stato lasciato a sé stesso. I distretti avevano un senso, e quando è servito non c’erano. Sono mancati igienisti e servizi di sanità pubblica. Il nostro ruolo va rivisto alla veloce, e l’intero sistema – insieme alla legge 23 - va rivisitato, ad esempio trovando un ruolo per il CRT-Coordinamento per la rete territoriale, individuando un contenitore che assicuri uniformità. A volte l’eccessiva capillarità sul territorio va a scapito del bene, le aggregazioni di medici possono invece assicurare uniformità e servizi: in questo senso bisogna ragionare sulle AFT-Aggregazioni funzionali territoriali, rivedere le cooperative per la gestione del cronico, predisporre infrastrutture per i MMG. Balestrieri: «Il territorio è stato giudicato l’anello debole nella risposta lombarda alla pandemia. Ma proprio durante questa fase si sono attivate modalità di lavoro (come la telemedicina, la semplificazione burocratica) da tempo attese. Al contempo si discute sul ruolo dei distretti e sull’evoluzione che potrà avere la legge 23 di Regione Lombardia, in corso di revisione. Qual è la vostra opinione?». Brignoli: «In Regione non c’è nessuna intenzione di modificare l’assetto della medicina generale: sulla presa in carico del cronico non ci sono novità e la funzione degli infermieri di famiglia non è ben chiarita. E nei bilanci regionali non c’è una lira in più per i MMG, non si ha un’idea di come investire sul territorio. Vertua: «Questa pandemia ha profondamente modificato il mio modo di essere pediatra. In più di 30 anni di convenzione ho cercato di fare imparare ai genitori come gestire l’”acuto banale”, ovvero il bambino con raffreddore, tosse o febbre. Con le linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità tutto questo è stato stravolto, e ora ci ritroviamo a rispondere a centinaia di telefonate di genitori allarmati ai primi sintomi di raffreddamento. Lonati: «Covid ha innescato diversi cambiamenti, per esempio abbiamo sviluppato esperienze di telemedicina e imparato a sperimentare la presa in carico avvalendoci del contatto telefonico: anche questo è un momento di cura, e si coniuga con l’idea che la partecipazione attiva dell’assistito non è qualcosa di peregrino. Il rapporto telefonico associato alla responsabilizzazione dell’assistito va ora strutturato in modo più robusto. Rossi: «In una Regione ospedalocentrica da sempre, dove il 50% dell’erogato è in mano al privato, la necessità più avvertita è quella di personale e di integrazione sul territorio, ma non credo che l’infermiere di famiglia cambierà le cose, perché si tratta di un dipendente dell’Asst, non di una figura dedicata, e sul territorio si rischia di impoverire l’ADI, i cui erogatori paventano l’assenza di infermieri. Gozio: «”Il re è nudo”: Quanto tiene la Regione al territorio? La pandemia ha evidenziato la necessità di aggregazioni, ma le AFT rincorrono qualcosa che non è stato pensato in Regione, dove non c’è una visione prospettica per arricchire il territorio. Piuttosto, stiamo inseguendo gli eventi, cosa che, se giustificata nel primo periodo pandemico, ora non lo è più. Martire: «Esprimerò una posizione fuori dal coro: credo che la presa in carico ci stia, ma in tutt’altro modo. Siamo ancora dei liberi professionisti, c’è un Accordo collettivo nazionale, è con gli accordi che si può fare quello che si vuole. E le AFT, mai considerate in precedenza dalla Lombardia, sembrano più che altro funzionali a un ripescaggio della legge 23. Balestrieri: «Le debolezze evidenziate dalla pandemia richiamano con forza il tema della formazione del MMG: secondo alcune voci va considerata l'opportunità di istituire una vera e propria Scuola di Specializzazione in Medicina delle cure primarie con un percorso accademico ed un "core curriculum" definiti». Brignoli: «Da coordinatore regionale del Corso di formazione specifica in Medicina generale tengo a ricordare che sono tre le linee strategiche della Scuola di formazione. In primis il tirocinio professionalizzante, secondo il principio del “learning by doing”, come avviene per gli specialisti, con la possibilità di lavorare “dentro” la medicina generale. Fra esercitazioni e pratica, una parte di questa attività diventa il fare il medico, seguiti da un tutor. E questo rappresenta un cambiamento epocale: non c’è tanto bisogno di accademia o specialità nella medicina generale, che è una disciplina con prerogative proprie, orientata a curare l’illness, non il disease. Vertua: «Quando sono uscito dall’Università conoscevo molte cose specialistiche ma non sapevo come dare lo sciroppo, o come creare un rapporto empatico con le mamme, per cui il pediatra è una specie di confessore. In questo senso la formazione specialistica non è adeguata, perché chi esce dall’Università ha una preparazione teorica notevole, ma incontra difficoltà a gestire cose banali. Anche perché è difficile insegnare a interfacciarsi col genitore, che ha bisogno di sicurezze: è una cosa che nasce dall’esperienza o dall’osservazione dei maestri. Rossi: «Il MMG ragiona non per patologie ma per percorsi, è per questo che in studio siamo chiamati ad offrire ai colleghi ciò che l’Università non ha dato. Il percorso accademico ti insegna a lavorare come singolo, in medicina generale bisogna riuscire a lavorare in gruppo e per progetti, da qui l’importanza dei project work e dei dossier in cui si cimentano i colleghi in formazione. Lonati: «La formazione sulle cure primarie è qualcosa che non appartiene al percorso del futuro medico, mentre dovrebbe essere presente in tutte le specializzazioni, oltre che nella medicina generale». Di Stefano: «E’ stato annunciato l’arrivo di 5 milioni di test rapidi antigenici, da effettuare negli studi dei medici di famiglia. Cosa ne pensate?». Brignoli: «E’ un insulto all’epidemiologia. Queste tipologie di test servono in popolazioni molto ampie da “tamponare” subito. Non è il bisogno di questo momento. E’ necessario, piuttosto, un percorso definito per le persone sintomatiche». Rossi: «A febbraio-marzo avrebbe avuto un senso, se tornassimo a quei numeri servirebbe, ma l’esecuzione dei test rapidi andrebbe accompagnata da una riorganizzazione del territorio: se manca quella, questo strumento diventa fine a sé stesso». Gozio: «I nostri ambulatori non sono attrezzati. E se la risposta al tampone tradizionale arriva in 36 ore al massimo, il test rapido risulta pleonastico». Di Stefano: «Mi sembra che siano tre i punti qualificanti emersi in questo confronto: tutti hanno avvertito una carenza di coordinamento a livello delle istituzioni e una difficoltà nel fare sintesi e prendere decisioni rapide seguendo l’evoluzione della pandemia. L’aspetto positivo è che il Covid ha costretto a ridurre la burocrazia, e l’auspicio è che questa lezione si mantenga nel tempo.
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