FORUM - mercoledì 28 ottobre 2020 Hanno partecipato Dopo la tregua estiva, l’onda autunnale dei contagi, in crescita ormai esponenziale, ha già lambito le prime linee: quegli ospedali che nella scorsa primavera erano stati l’epicentro dell’emergenza, riorganizzandosi per contenere l’urto, a costo di importanti sacrifici per gli operatori, non a caso definiti “eroi”.
Bianchetti: «La situazione milanese è di grande difficoltà e sta ricadendo su di noi, che ci stiamo organizzando per accogliere un numero crescente di pazienti (iniziano a mandarceli con il casco CPAP). Come gestiremo i pazienti bresciani, visto che i numeri sono in aumento? La sensazione è che siamo in ritardo. Nella suddivisione tra ospedali Hub, Spoke e strutture territoriali ci ritroviamo a non sapere come attivare l’Adi o cosa fanno le Usca. Per i medici è frustrante, ci si deve un po’ arrangiare. Sono molto preoccupato perché non credo che questa fase sia meno caotica e pesante della precedente». Bussi: «L’impressione è che sia un fenomeno ingovernabile, siamo ripiombati nella stessa situazione di sei mesi fa, vedo anch’io demotivazione e malcontento nei medici: la percezione è di essere mandati al fronte da altri che non si sa come vogliano condurre la battaglia». Antonini: «Abbiamo già pazienti Covid in area medica e stiamo aprendo la Terapia intensiva. Sullo sfondo la strategia della Regione è quella di ampliare il più possibile i 18 ospedali Hub e le Fiere di Milano e di Bergamo, che avrebbero dovuto partire nel raggiungere i 150 pazienti in Terapia intensiva. Oggi siamo a 280, alla Fiera di Milano ci sono 12 pazienti e quella di Bergamo non ha ancora aperto, mentre dal Coordinamento delle Terapie intensive arriva un grido d’aiuto, con la richiesta agli Spoke di aprire il più possibile e mettere a disposizione medici e infermieri a supporto degli Hub. Gentilini: «Stiamo inseguendo qualcosa che dovevamo avere la capacità di gestire, e stiamo subendo scelte nazionali e regionali che ci penalizzano: se non si dispongono chiusure mirate (come a Milano e Napoli) andremo verso l’esplosione dei casi, che ricadranno a cascata sulla tenuta degli ospedali. Scolari: «Forse, la creazione di ospedali Covid-dedicati poteva permettere di mantenere una attività ambulatoriale pulita negli Hub per patologie più impegnative, non rinviabili e non affrontabili con la telemedicina. La creazione di ospedali Covid-dedicati non poteva però certo escludere di creare un’area Covid negli Hub, necessaria per curare le patologie più complesse in pazienti Covid-positivi. Tuttavia, queste proposte si infrangono contro la scarsità di personale sanitario». Corda: «La situazione del Civile non è paragonabile a quella di marzo, al momento è ancora gestibile, e la spia è il pronto soccorso, dove i numeri dei “sospetti” sono molto più contenuti. Magnini: «Il mio ruolo, a differenza dei colleghi, è stato più fortunato, perché i bambini sono stati risparmiati dalla gravità della malattia e abbiamo avuto il tempo di prepararci. Quando il primo paziente Covid è stato ricoverato, il 13 marzo, avevamo già predisposto i percorsi e ci eravamo riuniti nella Rete pediatrica per condividere approcci e strategie. Il nostro reparto di Esine doveva essere Covid-free, con centralizzazione dei malati al Civile: in realtà abbiamo trasferito solo un bambino a Bergamo per miocardite e uno al Civile. Al momento non abbiamo nessun bambino ricoverato, e stiamo lavorando per organizzare l’attività secondo le nostre possibilità. Di Stefano: «In questa nuova ondata di emergenza pensate sia possibile mettere in campo un Piano straordinario di intervento? Ha un senso proporlo, soprattutto in relazione al nodo delle assunzioni e degli specializzandi? E’ praticabile pensare a una cabina di regia che possa ascoltare l’esperienza dei medici, per porre rimedio alle criticità che sono sotto i nostri occhi?». Scolari: «Nell’emergenza la regia è mancata certo, e così la catena di comando. Ma questo è dovuto al modello organizzativo. In nessun posto al mondo esistono aziende con un uomo solo al comando. Tutte hanno un consiglio di amministrazione ed un amministratore delegato. Non è pensabile che le comunità locali con le loro rappresentanze elettive siano escluse dalla gestione della sanità. Credo sia un grande impoverimento, soprattutto in termini di conoscenza della realtà in cui si opera. Inoltre, questo modello si traduce in un nuovo centralismo (che significa rigidità). In sostanza le direzioni degli ospedali rischiano di diventare delle prefetture, espressione del governo centrale. Bussi: «Sarebbe bello avere un Piano, ma per concretizzarlo bisognerebbe avere più strumenti e risorse. Un incremento delle assunzioni non lo vedo facilmente realizzabile, soprattutto negli ospedali periferici dove è complesso reclutare risorse umane, mediche e infermieristiche». Antonini: «Forze nuove da arruolare non ne vedo. Una piccola riserva potrebbero essere gli specializzandi del terzo anno (quelli del quarto e quinto stanno già lavorando e sono avviate apposite procedure di concorso). Gentilini: «Nei mesi scorsi non è stato programmato assolutamente nulla per farsi trovare pronti all’ondata dell’autunno. Si parla dei posti di Terapia intensiva in Fiera, ma non si dice dove reperire il personale, che deve essere altamente professionale. Anche il nostro ospedale, peraltro, dovrà assicurare 3 medici e 9 infermieri alla Fiera, ma siamo già sotto organico. Ed è utopistico pensare che ora, in corsa, si possa sistemare tutto». Corda: «Del Piano non si vede nemmeno l’ombra. E sono emerse drammaticamente tutte le criticità di cui eravamo consapevoli prima dell’era Covid, che ha acuito le carenze dell’area ospedaliera. Forse una via praticabile sarebbe quella di una proposta condivisa tra Ordini professionali e sindacati, per ottenere maggiore ascolto in un momento così difficile. Balestrieri: «Questo primo scorcio dell’ondata autunnale dà l’impressione che il territorio sia più organizzato, con l’incremento delle Usca, l’organizzazione più agevole dei tamponi e l’attivazione nel polo di via Morelli dell’ambulatorio di stratificazione del rischio nei pazienti Covid. La situazione locale, per tutto ciò che non riguarda le Terapie intensive, è più controllabile? Come valutate l’organizzazione del territorio?». Bianchetti: «Sul territorio c’è una maggiore capacità diagnostica (molti pazienti positivi che vengono ricoverati hanno già fatto il tampone in precedenza), ma non vedo la capacità di gestire questi pazienti, in termini di disponibilità di strutture e adeguati percorsi di isolamento. Non dimentichiamo che l’ambiente famigliare è una delle prime fonti di infezione. Corda: «Il territorio non ha saputo organizzarsi. Non mi sembra che molti medici di medicina generale siano disposti a visitare i pazienti a rischio Covid, pur con tutti i problemi che devono affrontare, a partire dalla disponibilità di dispositivi di protezione individuale. Sono stati assunti degli infermieri per il territorio ma gli effetti non si apprezzano ancora. C’è poi un problema di ordine sociale: molti pazienti Covid sono rimasti a lungo in ospedale perché non potevano essere isolati a casa». Di Stefano: «Sul territorio c’è carenza di comunicazione. A Brescia è partito l’ambulatorio di diagnosi e stratificazione del rischio Covid in via Morelli (che come Ordine avevamo sollecitato già dal 4 maggio scorso), le Usca sono sfruttate meno di quanto dovrebbero. La situazione negli ambulatori è a macchia di leopardo, alcuni medici si sono attrezzati con la telemedicina e il lavoro di gruppo, altri hanno proseguito in solitudine». Balestrieri: «Il periodo più “caldo” dell’epidemia, con il grande stress sopportato dagli ospedali, ha visto, in genere, un senso rafforzato di identità professionale e un rapporto più stretto e collaborativo tra colleghi di specialità diverse. Oggi forse la situazione è differente, in questi giorni l’Anaao con un duro comunicato chiede nei reparti Covid solo personale con specializzazione idonea. Il clima che abbiamo visto nella prima emergenza, con persone di specialità diverse che hanno riscoperto modalità di comunicazione e solidarietà per lavorare insieme, è stato il frutto di una stagione irripetibile o è destinato a durare? Come può essere favorito?». Corda: «La cosa più bella e commovente è stato il rapporto con gli infermieri, e questa intensa collaborazione è stata recuperata, così come quella con molti colleghi. Un rapporto speciale si è creato non solo all’interno delle mura dell’ospedale, ma anche con la popolazione: ricordo le borse cariche di colombe, vestiti e generi di prima necessità che le persone facevano recapitare direttamente ai singoli reparti, per testimoniare la loro vicinanza. Tutto ciò che è gemmato in questa occasione non va perduto». Scolari: «Non so se questo clima è destinato a durare, me lo auguro. Certo noi abbiamo riscoperto la dimensione etica della nostra professione, la cultura della solidarietà e in generale l’empatia. Tuttavia, è necessario per rendere stabile quanto acquisito che la politica si muova per ridare dignità alla professione sanitaria, costruendo modelli organizzativi in cui la competenza e la qualità professionale trovino una adeguata collocazione». Bianchetti: «Io sono preoccupato per il futuro, perché rimangono problemi irrisolti come quello delle coperture assicurative. Se un medico lavora in un reparto Covid è frequente che venga cambiato il tetto assicurativo. Come facciamo a convincere nuovamente gli otorino e altri specialisti a venire a lavorare da noi? C’è un problema di responsabilità professionale che non possiamo trascurare, e accanto all’entusiasmo si avverte anche molta prudenza. Le denunce non ci hanno ancora colpito, ma non mancheranno». Di Stefano: «Di fondo c’è un problema organizzativo, la collaborazione intensa tra diversi specialisti non di branca è stata determinante, e l’esperienza delle équipe multidisciplinari va valorizzata, altrimenti rischiamo di perdere un patrimonio prezioso. Sembra però che a livello decisionale l’importanza di questo portato non sia stata colta». Corda: «Un altro problema è rappresentato dalla gestione dei dati: è su questi elementi di certezza che dobbiamo avviare ragionamenti e programmazione. Ma è necessario avere un’interpretazione adeguata dei dati, potendo scorporarne i vari elementi: gli asintomatici, la saturazione delle terapie intensive e delle terapie ordinarie. Sarebbe un modo per raggiungere conclusioni più certe per chi ci governa». Balestrieri: «Un’altra necessità avvertita è quella di avere delle linee guida terapeutiche, che orientino il trattamento dei pazienti Covid ospedalizzati, fino alla Terapia intensiva. Molti farmaci inizialmente in uso, come l’idrossiclorochina, Lopinavir e Ritonavir, sono caduti come birilli. Qual è l’orizzonte attuale? Si profila l’avvio di nuovi trial clinici, ad esempio per l’utilizzo degli anticorpi monoclonali?». Antonini: «Durante la prima ondata avevamo realizzato trial su Tocilizumab, mentre in questa seconda fase non ho notizia di nuovi trial organizzati dal coordinamento, almeno per quello che ci riguarda». Corda: «L’utilizzo di Remdesivir è stato molto ridimensionato. Oggi la parte più sostanziale della terapia è rappresentata dall’eparina somministrata in modo abbastanza tempestivo (questa, peraltro, è una scoperta fatta proprio sulla casistica italiana) e dalla terapia steroidea. Anche in Terapia intensiva la mortalità è più bassa, perché c’è maggiore conoscenza della malattia e la scelta di intubare è più precoce rispetto a prima. Abbiamo affinato dosaggio e tempistica, anche se una terapia eziologica antivirus non l’abbiamo ancora». Di Stefano: «I test rapidi antigenici possono rappresentare un passo avanti in mano ai pediatri?». Magnini: «L’efficienza dell’organizzazione dei tamponi per la popolazione scolastica, con l’accesso diretto per effettuare il test, ha reso meno avvertito il problema. E negli ambulatori non si è registrato un accesso eccessivo di bambini con necessità di diagnosi. I test rapidi potrebbero consentire priorità nell’apertura delle scuole, tenendo conto però che né le scuole né i trasporti scolastici risultano focolai significativi di diffusione del contagio». Bianchetti: «Non sarei troppo ottimista nel dire che i pazienti di oggi sono più “leggeri”. Lo sono perché arrivano prima e sappiamo dove metterli. Tra un po’, se gli ospedali si saturano, rischiamo di avere gli stessi morti». In un panorama che vede i numeri dei contagi in continua evoluzione, il punto di vista dei medici che vivono quotidianamente la linea di frontiera dell’ospedale potrà rappresentare un prezioso contributo per orientare le scelte organizzative e sanitarie nella gestione della seconda ondata.
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