Long Term Care

Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della provincia di Brescia

FORUM - mercoledì 11 novembre 2020

Hanno partecipato
Gianpaolo Balestrieri, Direttore responsabile di Brescia Medica
Ottavio Di Stefano, Presidente Ordine dei Medici di Brescia
Corrado Carabellese, Direttore Sanitario Fondazione Casa di Dio Onlus
Elisabetta Donati, Presidente Fondazione Casa di Industria Onlus
Antonio Guaita, Direttore Fondazione Golgi Cenci, Abbiategrasso
Gianbattista Guerrini, Direttore Sanitario Fondazione Brescia Solidale Onlus
Marco Trabucchi, Presidente Associazione Italiana di Psicogeriatria e Direttore scientifico Gruppo di Ricerca Geriatrica
Ermellina Zanetti, Infermiera, Vicepresidente Associazione Assistenza PRimaria In Rete (APRIRE) –Network, Componente Gruppo di Ricerca Geriatrica


La “Long Term Care” viene definita come un insieme di servizi sanitari e sociali erogati in modo continuativo e prolungato nel tempo, pensati per dare risposta ai bisogni della popolazione anziana e alla necessità di assistenza legata al processo di invecchiamento e all’emergere di disabilità fisiche e mentali.
Durante la prima ondata pandemica le Rsa - Residenze Sanitarie Assistenziali sono state duramente colpite dagli effetti del contagio, trovandosi con pochi strumenti a fronteggiare un’emergenza che ha fatto saltare le protezioni per gli ospiti più fragili, causando un numero elevato di decessi nelle strutture.
Quanto accaduto non può essere ascritto solo all’eccezionalità del momento, ma deve diventare occasione per un ripensamento complessivo delle politiche di presa in carico della terza età, in un orizzonte segnato dal progressivo invecchiamento della popolazione. Abbiamo aperto un confronto con le figure che più da vicino si interrogano su queste tematiche.


Balestrieri: «Il tema delle Rsa ha dominato l’attenzione dei media nella prima fase della pandemia, quando le case di riposo hanno pagato un prezzo altissimo in Lombardia (come in Europa e nel Nord America), con mortalità e morbilità drammaticamente elevate. Le strutture hanno incontrato difficoltà (soprattutto iniziali) nel reperimento dei dispositivi di protezione, nella possibilità di isolamento degli ospiti, nella disponibilità di tamponi diagnostici e di linee guida terapeutiche, e nell’accesso a cure ospedaliere.
Lo stretto isolamento degli ospiti dai familiari, il blocco delle attività comuni proseguiti nei mesi successivi a marzo-aprile hanno determinato un rilevante deterioramento della qualità di vita e delle condizioni di salute degli anziani.
Ora, con la “seconda ondata” epidemica, i timidi tentativi di riapertura dei contatti con l’esterno sono stati fermati da nuove ordinanze di chiusura. In questo contesto il modello geriatrico di assistenza agli anziani fragili elaborato e sperimentato negli ultimi decenni - teso a dare significato e qualità alla vita nelle residenze, attraverso molteplici attività e la vicinanza dei familiari - rischia di subire un colpo grave, con un prezzo elevato da pagare in termini di salute fisica e psichica degli ospiti.
Come ripensare il modello di residenzialità nella pandemia? Quali considerazioni possono essere proposte in questa fase?».

Trabucchi: «La nostra cultura e organizzazione sociale non hanno mai vissuto le Rsa come qualcosa di appartenente alla comunità. Ne avevamo bisogno, hanno svolto un ruolo prezioso, una funzione fondamentale ma di fatto marginale nell’interpretazione collettiva. Covid ha fatto esplodere il problema.
Se la cultura “formale” in ambito geriatrico non si è mai sostanzialmente occupata delle residenze, non ritenendo utile un atteggiamento “positivo” per persone affette da pluripatologie, ora è necessario pensare di cambiare. Ed è un segnale importante che l’Ordine dei Medici metta questo tema tra le priorità da discutere. Non c’è ancora una sensibilità diffusa, parliamo di poche avanguardie, ma dopo il Covid potrebbe aprirsi qualche segnale positivo. Il nostro impegno continua, per far trovare consenso alle nostre idee».

Guaita: «Le Residenze sono state messe sotto i riflettori durante l’emergenza, con il rischio che diventino un facile capro espiatorio della situazione. Le strutture presentano aspetti di forza e di debolezza, ma è come se in una situazione di grande stress gli elementi di debolezza abbiano rappresentato un punto cruciale che ha reso difficile una gestione appropriata. L’impegno deve essere volto ad evitare gli errori fatti, e bisogna scorporare, ad esempio, l’eccesso di mortalità legato alla pandemia da quello prevedibile riferito alla situazione delle persone. Non dobbiamo rischiare di buttar via un’occasione, serve un ripensamento per migliorare».

Donati: «C’è però una certa ambiguità di fondo nella percezione delle Rsa da parte dell’opinione pubblica, secondo cui le strutture non sono senza colpa, e vengono dipinte come realtà che si arricchiscono sulle persone fragili, generando profitto. Anche l’immagine degli ospiti è completamente falsata, ed è difficile per chi amministra un ente gestore essere sintonizzati sui bisogni e al contempo essere identificati come cinghia di trasmissione della politica, perché accreditati dalla Regione.
Del resto la stessa rappresentazione della vecchiaia stenta a diventare di dominio pubblico: non abbiamo un Piano della vecchiaia aggiornato da più di vent’anni, solo l’Istat, facendo riferimento alla letteratura internazionale e all’Active Aging Index, si orienta a una lettura complessiva delle politiche integrate per la società che invecchia. Scontiamo certamente limiti strutturali, ma anche l’assenza di politiche di contorno, in uno scenario collettivo preoccupante, in cui avanza l’idea che torneremo ad essere i “luoghi della morte”».

Carabellese: «La pandemia ha dimostrato l’efficacia dei principi della cura socio-sanitaria che, oltre alla cura delle malattie in senso stretto, si occupa della socializzazione, dello stare insieme, del rapporto con i familiari, e quanta salute garantiva agli ospiti. In epoca Covid abbiamo isolato gli ospiti in camera dove trascorrevano le giornate una dietro l’altra, con visite di ausiliari bardati che operavano nel minor tempo possibile. Il protocollo affermava che nel sospetto Covid-19 la porta doveva essere chiusa per il rischio contagio. Durante l’igiene alla paura degli ausiliari si associava il pensiero di evitare i contatti stretti e le carezze, i sorrisi…  Prima si consigliava di parlare, stimolare. Poi l’alimentazione è diventata veloce, con piatto unico, integratori, gelati. I familiari: alla porta e con contatto tablet (ma il demente con MMSE < 10, che rappresenta almeno il 60% degli ospiti?). La sospensione dell’accesso dei familiari rappresenta una vera difficoltà che si spera con le dovute tecniche possa essere rivalutata.
Poi l’animazione, la tombola, la lettura del giornale, tutto sospeso. All’improvviso come un temporale, le feste del pomeriggio, la musica, gli alpini, la torta: stop, non si esce dalla camera e con la porta chiusa.
Forse oggi abbiamo bisogno di nuovi modelli organizzativi per far fronte alla facile diffusione dei virus da un lato, ma anche di una cura caratterizzata non da solo pastiglie, visite mediche o misurazione di parametri vitali».

Zanetti: «In questi mesi, aiutando gli operatori della Rsa a ritrovare la bussola del loro operato, ho percepito come la pandemia abbia messo in luce debolezze e solitudine. Le strutture hanno dovuto attrezzarsi per attivare l’ossigeno, perché gli ospedali non potevano intervenire sulle situazioni che necessitavano di un approccio intensivo. Ed è emerso come la risposta ai bisogni sia mediata dagli operatori, e sconti il limitato numero di infermieri presenti nelle strutture.
Uno studio condotto in California, ad esempio, ha considerato tra i fattori associati alla diffusione dell’infezione nelle strutture residenziali anche lo staffing, ovvero le ore giornaliere di assistenza infermieristica per ospite e lo skill mix. Le 272 residenze in cui sono stati riscontrati ospiti con Covid-19 avevano standard assistenziali più bassi (meno di 4 ore per ospite al giorno) e meno ore erogate da infermieri laureati rispetto alle 819 strutture Covid free. Gli anziani ospiti delle strutture con un numero di ore erogate da infermieri laureati inferiore a 0,75 ore die avevano una probabilità due volte maggiore di contrarre il virus.
In Lombardia, la regione con il maggior numero di strutture residenziali per anziani, da almeno vent’anni i finanziamenti erogati dalla Regione non hanno subito alcun incremento e le strutture hanno ridotto i livelli assistenziali (sono 901 i minuti settimanali per ospite richiesti dalla Regione ai fini dell’accreditamento), per contenere i costi e non far lievitare eccessivamente l'importo della retta. Secondo i dati dell’Osservatorio Settoriale sulle Rsa della LIUC Business School, i minuti di assistenza settimanale per ospite, riferiti all'anno 2018, sono in media 1.146, nel 2010 erano 1.200. Di questi, solo 211 (30 minuti al giorno) sono erogati da infermieri».

Guerrini: «Di fondo c’è la contraddizione della collocazione delle Rsa nella rete dei servizi sanitari e socio sanitari: da anni alle nostre strutture vengono affidati compiti più complessi e gravosi, riducendo però le risorse e gli organici. Da qui la grande contraddizione di considerarci presidi su cui fare vigilanza sanitaria molto stretta, chiedendoci incombenze burocratiche costose, risorse umane, investimenti, senza darci le risorse necessarie.
Le nostre strutture stanno vivendo una crisi economica importante, essendo state chiuse a lungo ai nuovi ingressi, pur mantenendo i costi di gestione. Questa situazione può autorizzare il sospetto che dietro ci sia l’idea che il sistema delle Rsa vada ripensato, puntando su strutture di dimensioni maggiori, con più competenze di tipo sanitario, e facendo venire meno le strutture più piccole, che mantengono il raccordo con le realtà territoriali, offrendo servizi di assistenza, centri diurni, poli multifunzionali per gli anziani.
Lo sforzo che caratterizza da tanti anni le nostre strutture è quello di coniugare la buona qualità di cura – e quindi una risposta adeguata ai bisogni sanitari degli ospiti – con la garanzia di un benessere più ampio. Nelle Rsa le persone vivono, per questo devono essere luoghi di cura e di vita, anche se è certamente complesso tenere insieme le due cose.
La mia preoccupazione è che di fronte a questa crisi, e alla difficoltà di reggere alla mancanza di risorse adeguate, si finisca per ripiegare sulla tutela degli aspetti prettamente sanitari, dimenticandoci che da noi le persone vivono, non sono accolte per una settimana o per un mese. Questa è la grande sfida. Il documento della Regione punta a una maggiore specializzazione sanitaria, e la scelta di chiudere ai familiari, indipendentemente dalla capacità delle strutture di organizzarsi, forse nasconde questa idea. Del resto la matrice portante del nostro assessorato al Welfare proviene dalla sanità, il socio sanitario è poco presente».

Di Stefano: «In questo periodo abbiamo assistito ad immissioni di nuove risorse a favore delle strutture di cura, come l’assunzione di medici e infermieri negli ospedali. C’è stata attenzione per le Rsa?
Il concetto di casa di riposo è profondamente cambiato negli ultimi anni, se prima era percepito quasi come un “disonore” essere ricoverati, ora è ingente lo sforzo prodigato non solo nell’accoglienza ma anche nell’integrazione sociale degli ospiti».

Guerrini: «C’è stata una fugace messa a disposizione di un piccolo numero di infermieri, 4 o 5 in tutto nella nostra Ats, mentre sulle risorse economiche la partita non è ancora chiusa. E’ stata data garanzia che il budget del 2019 verrà confermato anche nel 2020: il problema è che copre solo la quota sanitaria e non la quota alberghiera che rimane a carico del cittadino o dei Comuni, con un rapporto di 40 a 60. I giorni di degenza persi avranno quindi una copertura al 40%, senza contare i costi organizzativi (fra cui quelli per i Dpi) che non sono coperti dall’intervento regionale.
Il prossimo anno è previsto un aumento delle tariffe del 2,5%: con quello riusciremo forse a coprire il costo aggiuntivo dei soli guanti, che hanno visto salire i prezzi del 500%. Anche il Governo è totalmente assente sul versante socio sanitario, in questa fase ci ha dimenticato».

Trabucchi: «L’impressione è che non abbiano la più pallida idea della realtà del Nord, e tengano come modello l’assistenza geriatrica di Roma o Napoli. Il ministro non è stato specificamente coinvolto sul problema, mentre la designazione di monsignor Paglia come presidente della Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana è una nomina di parte, che prelude già alle conclusioni.
Mi chiedo perché non riusciamo a fare una lobby culturale prima che politica su questi argomenti? Servono persone per costruire una cultura che metta al centro queste priorità. Se non c’è questo fondamento culturale non si parte nemmeno in battaglia».

Donati: «Vale la pena chiedersi come arrivano le persone alla scelta della Rsa. Nella percezione diffusa c’è ancora la rappresentazione di una vecchiaia priva del riconoscimento dei diritti alla scelta e al benessere. L’esperienza del singolo è depotenziata di progettualità sul modo di invecchiare, trascurando il fatto che - se può – è giusto che la persona chieda come essere curata e assistita.
Non aiuta la frammentazione del mondo socio sanitario e sociale, in cui nessuno ha un ruolo di governance, ma prevale una scomposizione tra operatori pubblici, badanti, enti gestori, piccoli e grandi gruppi del profit che rende il terreno poco riconoscibile. In una prospettiva più ampia, sono poche le voci che provano a diradare le nebbie sull’invecchiamento in generale e le strategie per la fragilità, che implicano anche ragionamenti molto spinosi sul tema dei diritti».

Balestrieri: «In effetti la pandemia ha evidenziato la fragilità organizzativa e il nodo della sostenibilità finanziaria delle Rsa, il cui personale si è adoperato con grande spirito di sacrificio (molti si sono ammalati, alcuni sono morti). La richiesta da parte degli ospedali, inoltre, aggrava e rende critica la carenza di personale, soprattutto infermieristico, attratto da condizioni contrattuali migliori. E in assenza di piani di aiuto molte Rsa (specie le più piccole, fortemente legate al proprio territorio) rischiano di chiudere a favore di gruppi nazionali e internazionali più solidi.
Nel medio-lungo termine si pone la necessità di potenziare l’attuale debole sostegno finanziario pubblico alla non-autosufficienza, che emerge come tema centrale delle politiche socio-sanitarie. Quali le direttrici su cui orientarsi?».

Trabucchi: «Se qualcosa di positivo può venire dal dramma Covid è che si rinnovi l’attenzione al mondo della non autosufficienza, finora trascurata dall’agenda politica.
In questa fase i fondi del Mes e del Recovery fund dovrebbero essere assicurati all’ambito sanitario e socio sanitario, anche se il tema del sottofinanziamento è solo la metà del problema. L’altra metà è la progettualità, con interventi per la presa in cura complessiva della persona. E’ importane, in questo senso, avanzare delle proposte che speriamo qualche forza politica faccia proprie».

Guaita: «E’ opportuno ricordare che in sette anni l’intensità sanitaria degli ospiti ricoverati è cresciuta del 9%, secondo i dati Istat. Di ospiti autosufficienti non ne abbiamo quasi più, e questa è una trasformazione enorme, perché sappiamo che quanto più una persona è non autosufficiente, tanto più è malata. Pensiamo solo all’enorme impatto dei ricoveri di persone con demenza all’interno delle residenze: il primo problema di non autosufficienza, infatti, è quello psichico. Associato ad altre problematiche sale all’80-89%.
Non possiamo più pensare di organizzare il funzionamento delle strutture senza tenere conto di questi aspetti. Perché oggi la non autosufficienza è diversa, e pone problemi enormi nel rapporto tra libertà e sicurezza. Questi aspetti sono esplosi di fronte alla pandemia, se si considera che il 78% dei ricoverati ha anche problemi comportamentali e non può sottostare alle regole imposte contro il Covid, come quella di indossare la mascherina.
Il passaggio che si impone oggi è di ripensare le strutture, abbandonando una sterile difesa del passato. Ad esempio gli ospiti devono avere un luogo privato di vita, come una stanza singola: è possibile che questo aspetto risulti secondario? C’è poi la questione del personale: se pensiamo che in Italia su 60 mila detenuti ci sono 30 mila guardie, ci rendiamo conto che i carcerati hanno più assistenza degli ospiti delle Rsa. Aspetti che gridano vendetta, in relazione anche ai profili di rischio dell’infezione da Covid-19: due persone su dieci sono morte perché non c’era abbastanza personale.
Le Rsa sono come un anziano fragile: non possono contare sulla riserva funzionale. Da questa fragilità bisogna uscire, ragionando non solo in termini di numeri ma anche di formazione e aggiornamento del personale, e di collegamento con le strutture di cura sia sanitarie che sociali.
In futuro dovremo confrontarci con una popolazione anziana di novant’anni, in maggioranza donne, fragili. Bisogna programmare fin da ora, se non vogliamo trovarci davanti a una mortalità che non ci aspettavamo».

Carabellese: «La vita in comunità per un ospite fragile significa vivere un rischio aggiuntivo rispetto allo stesso ospite al domicilio. E’ possibile intervenire sul rischio? Certamente sì, attraverso percorsi di formazione, protocolli, Dpi, comportamenti professionali all’interno e all’esterno da parte dei dipendenti.
Per la sorveglianza sanitaria in senso lato non basta solo il controllo dei sintomi inerenti il Covid. La sorveglianza deve prendere in prima considerazione la mobilizzazione, le cure igieniche, la cura del cavo orale e protesi, la nutrizione, la socializzazione, la possibilità di vivere il proprio spazio e il proprio tempo. Oltre all’adozione di regole come lavaggio mani e mascherina, oggi abbiamo scoperto che la sorveglianza diventa estensiva: bisogna verificare che gli ospiti stiano ad un metro di distanza.
A marzo uno dei primi articoli pubblicati circa la diffusione virale nelle Nursing Home affermava che era fondamentale eseguire periodicamente il tampone a dipendenti ed ospiti al fine di identificare gli asintomatici Covid-19. L’esperienza di quei mesi ha permesso di verificare che quando venivano eseguiti gli esami a tappeto si individuavano casi asintomatici che di sicuro diffondevano il virus in modo silente. La continua sorveglianza sanitaria, i comportamenti adeguati di ospiti e dipendenti rappresentano un modificatore del rischio.
Le recenti indicazioni della Regione Lombardia (DGR 3226 e successive modifiche) controindicano la presenza in Rsa di ospiti asintomatici o paucisintomatici o sintomatici che dovrebbero essere trasferiti in strutture sanitarie subacute o Pronto soccorso. Tale indicazione tutelante per gli ospiti fragili e a forte connotato geriatrico per gli obiettivi della Rsa, permette di garantire un servizio di cura molto simile a quello che si erogava in passato».

Balestrieri: «Le politiche per l’invecchiamento sono chiamate a ripensare i modelli organizzativi di assistenza sul territorio, in cui, accanto alle strutture di accoglienza, si distingue il tema della domiciliarità. Quali le criticità e le possibili proposte?».

Guaita: «Siamo di fronte a un mito. I dati dicono che l’assistenza domiciliare funziona meglio quando funzionano meglio anche le residenze. Quando si parla di domiciliarità va sgombrato il campo da equivoci: non si tratta di recarsi a casa per fare un’iniezione o misurare la glicemia: Si tratta di un compito ben più ampio, quello di farsi carico della persona e aiutarla a vivere, accogliendo il suo progetto di vita. Stante la situazione attuale, è risibile pensare che la domiciliarità sia un’alternativa alla Rsa».

Trabucchi: «Abbiamo il dovere di portare avanti un impegno affinché “le Rsa non siano luoghi di morte ma di vita”: questo è lo slogan forte attorno a cui ritrovarci. Anche se sul futuro non sono particolarmente ottimista, perché non vedo molte risposte».

Di Stefano: «I medici hanno spesso degli “scotomi” riguardo a questi mondi, e non nascondo un certo pessimismo circa il livello di sensibilità diffusa sui temi dell’invecchiare e della non autosufficienza. Forse però un aspetto importante che la pandemia Covid ha messo in evidenza è la necessità di preservare relazioni, a tutti i livelli».

Zanetti: «Non va dimenticata, ad esempio, la grande sofferenza vissuta dagli operatori durante l’emergenza. Isolare le persone è costato una fatica immane agli operatori, in questo le strutture più piccole sembrano essere state favorite. Difficile da gestire è stata anche la lontananza imposta ai familiari, sebbene in letteratura non sia dimostrato che la presenza dei parenti aumenti l’infezione. Con le persone che si stavano spegnendo eravamo solo noi, e ci siamo interrogati su cosa avrebbero desiderato per quel momento, abbiamo cercato di intuire la loro volontà, consapevoli che questi aspetti erano complessi da ricostruire.
Oggi, se possibile, dobbiamo riprogettare il futuro: ed è importante coinvolgere in questa discussione, legata alla cura e ai modelli di assistenza, anche chi progetta le strutture».

Carabellese: «Ho scoperto che le Rsa costruite secondo i canoni architettonici della socializzazione, con ambienti favorenti la vita di comunità, gli spazi dove vivere appartati con figli, nipoti e badante, il bar, la cappella, il portinaio, sono una catastrofe quando bisogna rispettare i canoni architettonici del virus, che impone percorsi differenziati per personale, visitatori, fornitori e manutentori. Impossibile realizzare percorsi per la cappella, percorsi per lo spogliatoio, spogliatoio per tutti i reparti o differenziati, il personale per un reparto o per la Rsa, e la sala mortuaria con entrata indipendente. Anche l’organizzazione architettonica e strutturale andrebbe riorganizzata.
Gli aspetti finanziari, inoltre, hanno sicuramente caratterizzato la storia delle Rsa del 2020, storia che va analizzata anche sotto questo aspetto. Le difficoltà organizzative e contrattuali per i professionisti non sono una storia recente, vengono da molto lontano».

Donati: «Come si invecchia e si diventa fragili dipende da come si è vissuti: oggi stiamo seguendo la coorte degli anni Venti e Tenta del secolo scorso, ma c’è un’evoluzione demografica in corso e dobbiamo interrogarci su come saranno agli anziani nati negli anni Quaranta e Cinquanta, specchio di epoche diverse ed esigenze diverse. Il processo di trasformazione dei servizi dovrà essere originato dalla dinamica demografica: sarà necessario ragionare sull’inclusività delle politiche per la non autosufficienza, visto che attualmente gli anziani che non sono seguiti dalle Rsa o dalla famiglia o badante rimangono soli nelle loro case, e si parla di un 50% che attualmente rimane senza tutela.
Non solo: coloro che si occupano dei fragili rischiano di diventare gli “esclusi” di domani, si pensi ad esempio alle donne che si occupano dell’assistenza di un familiare, e che in futuro si ritroveranno vecchie, in solitudine e con disponibilità economiche ridotte, senza modalità di “restituzione” dell’impegno di cura prestato.
Non è solo, quindi, un problema di qualche prestazione in più, ma del ripensamento complessivo del tema della vecchiaia. La comunità è chiamata a un ridisegno complessivo che passa dalle scelte urbanistiche, dai trasporti, per poter vivere con agio anche quando saremo più fragili: bisogna far leva su politiche integrate se vogliamo che la vecchiaia diventi una stagione ancora ricca di opportunità».

Guerrini: «Esiste infatti una relazione circolare tra non autosufficienza e impoverimento, cui si assomma un calo, negli ultimi anni, degli investimenti sui servizi residenziali e assistenziali. La percentuale del Pil dedicata alla long term care equivale a poco più dell’1%, e la spesa complessiva per tutti gli interventi è di 5,9 miliardi (dati 2016), di cui il grosso è rappresentato dall’assegno di accompagnamento.
In prospettiva è necessario che si riesca a sviluppare una rete di servizi con l’intervento di attività  professionali. Oggi la filosofia della “libertà di scelta” ha monetizzato tutto, e anche l’Assistenza domiciliare integrata non è altro che una serie di prestazioni. Il problema, però, è quello di costruire una cultura della non autosufficienza come un percorso di vita, di cui deve essere parte integrante l’impegno nella prevenzione (si vive più a lungo ma la speranza di vita senza disabilità è molto più bassa).
Su tutti questi aspetti siamo molto in ritardo. Bisogna far capire ai decisori che non possono affrontare la non autosufficienza con gli stessi criteri del Pronto soccorso o delle malattie rare. E’ una logica diversa che deve stare alla base della costruzione di un complesso di servizi.

Balestrieri: «Il tema della long term care è ancora, per molti aspetti, un tema negletto, e non riceve la stessa attenzione riservata, ad esempio, alla medicina ospedaliera o ai medici di medicina generale. Come Ordine ci impegniamo a fare la nostra parte perché questi argomenti possano trovare ascolto e nuove progettualità».