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Al di là del virus: l'impatto psicologico della pandemia, l'infodemia e la comunicazione del rischio

Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della provincia di Brescia

di Giovanni de Girolamo, Medico Specialista in Psichiatria, IRCCS Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli Brescia

Molto è stato scritto e dibattuto in questi mesi circa le problematiche biologiche e clinico-assistenziali correlate alla pandemia da SARS-CoV-2. L’obiettivo di questo contributo è di analizzare l’impatto complessivo che da un punto di vista psicologico la pandemia ha avuto sia sugli operatori sanitari che sulla popolazione generale, e quindi di discutere i problemi relativi alla “comunicazione del rischio” (risk communication) che sono emersi con grande chiarezza in questi mesi.

L’IMPATTO PSICOLOGICO DELLA PANDEMIA NEL PERSONALE SANITARIO

Gli operatori sanitari, ed in particolare medici ed infermieri, che hanno dovuto, in differenti setting assistenziali e con differenti ruoli, gestire l’emergenza pandemica hanno certamente pagato un fortissimo tributo, a cominciare dai/dalle 190 Colleghi/e che, come segnala la FNOMCeO (dati aggiornati al 14.11.2020), hanno perso la vita a causa della malattia da coronavirus contratta nello svolgimento del proprio lavoro. In totale l’ISS stima in ben 52.229 gli operatori sanitari che hanno contratto la malattia (dati al 14.11.2020). Bastano queste semplici stime a far capire in che misura la pandemia abbia travolto anche medici ed altri operatori sanitari.

Sono state pubblicate numerose ricerche in questi mesi per esaminare l’impatto psicologico che l’esposizione al virus ha avuto tra gli operatori sanitari. Una recente meta-analisi (Cabarkapa et al., 2020) ha esaminato 38 studi pubblicati sino al 21 agosto 2020, i quali hanno preso in esame il personale sanitario, includendo in larghissima maggioranza medici ed infermieri; tra essi, la maggioranza (N=24) è stata condotta in Cina, mentre tre ricerche sono state realizzate in Italia. I 38 studi esaminati avevano un campione medio pari a 1.333 soggetti (DS 1.635), e sono stati condotti in larga maggioranza somministrando al personale sanitario questionari standardizzati. La categoria a maggior rischio sembra essere stata costituita da infermiere di sesso femminile a diretto contatto con pazienti affetti da coronavirus: tra costoro è stata riscontrata un’elevata prevalenza di sintomi di somatizzazione, insonnia ed emicrania. In generale il riscontro di elevati livelli di ansia, spesso correlata al forte timore di poter contrarre la malattia, di sintomi depressivi e di insonnia è comune a molte di queste ricerche. In uno dei tre studi italiani (Rossi et al., 2020) è emerso come il timore di poter contagiare colleghi di lavoro e familiari rappresentasse il principale motivo di preoccupazione; l’ospedalizzazione di un collega era associata a sintomi di stress post-traumatico, mentre il decesso di un operatore sanitario a causa della malattia virale era associato a sintomi di depressione ed insonnia. Alcuni studi hanno rilevato come disturbi del sonno (o la mancanza di ore di sonno) rappresentasse un particolare fattore di rischio per il burnout (Amanullah & Shankar, 2020); anche la mancanza di materiali di protezione individuale (Personal Protective Equipment, PPE), riscontrata in particolare nel corso della prima ondata, è stata associata a livelli più elevati di burnout. Cabarkapa et al. (2020) hanno anche messo in guardia da eccessive idealizzazioni di figure professionali quali medici ed infermieri (apparse in questi mesi) in quanto esse rischiano di caricare di aspettative eccessive ed irrealistiche il loro operato e di ostacolare un chiaro riconoscimento dei problemi e delle difficoltà che essi devono fronteggiare.

Risultati di particolare rilievo scientifico tuttavia arriveranno da tre grossi studi attualmente in corso in Francia, Germania e Gran Bretagna. In Francia è in svolgimento una ricerca dal titolo ‘Health cAre woRkers exposeD to COVID-19’ (HARD-COVID19) condotta in un ampio campione di operatori sanitari (medici, infermieri, altro personale sanitario) per valutare la prevalenza ed i fattori di rischio per burnout, depressione e disturbo post-traumatico da stress. In un campione comprendente 900 soggetti che soddisfano i criteri diagnostici per questi disturbi sarà poi realizzato uno studio clinico controllato per valutare l’efficacia di un intervento psicologico mirato versus assistenza di routine. Informazioni maggiori si possono trovare qui: https://clinicaltrials.gov/ct2/show/NCT04570202?term=HARD+COVID&draw=2&rank=1

In Germania è in corso una ricerca che coinvolge 21 centri universitari, volta a studiare un ampio numero di variabili relative all’impatto individuale ed organizzativo della pandemia sul personale sanitario (si veda https://www.bmbf.de/de/faq-zum-nationalen-forschungsnetzwerk-der-universitaetsmedizin-11570.html).

Infine, in Gran Bretagna è partito da qualche mese lo studio NHS CHECK (https://www.nhscheck.org/index.html) con l’obiettivo di indagare le condizioni psicologiche degli operatori sanitari durante la pandemia ed il tipo di supporto istituzionale ricevuto.

Resta il quesito su cosa fare per prevenire possibili condizioni di malessere emotivo e di burnout negli operatori sanitari esposti: l’ISS ha costituito un gruppo di lavoro (di cui l’autore di questo contributo ha fatto parte) che ha prodotto un documento dal titolo “Salute mentale ed emergenza COVID-19. Indicazioni ad interim per la gestione dello stress lavoro-correlato negli operatori sanitari e socio-sanitari durante lo scenario emergenziale SARS-COV-2”, al quale si rimanda per una dettagliata discussione delle possibili strategie di intervento (Gruppo di Lavoro ISS, 2020).

L’IMPATTO PSICOLOGICO DELLA PANDEMIA NELLA POPOLAZIONE GENERALE

Numerose sono le ricerche condotte in questi mesi in campioni della popolazione generale per stimare la prevalenza e le caratteristiche di varie forme di malessere psichico, o di veri e propri disturbi mentali, quali depressione, ansia, disturbo post-traumatico da stress, ecc. In tempi eccezionalmente brevi sono già state pubblicate ben quattro meta-analisi che hanno preso in esame 85 studi condotti a livello internazionale (tra i quali anche alcuni nel nostro paese) (Krishnamoorthy et al., 2020; Salari et al., 2020; Xiong et al., 2020; Luo et al., 2020): questi studi, quasi tutti condotti attraverso la somministrazione di questionari online, sembrano dimostrare che la percentuale di coloro che riferivano, a partire da febbraio 2020, disparate forme di malessere psichico era molto elevata, raggiungendo e superando il 40% delle persone esaminate. Tuttavia, la quasi totalità di queste ricerche presenta limiti metodologici che devono indurre alla cautela: innanzitutto, coloro che rispondono ad un questionario online, inviato per e-mail in maniera del tutto casuale o pubblicizzato attraverso i media, possono rappresentare un campione di popolazione autoselezionato proprio a causa di una condizione di malessere (chi sta male può essere infatti maggiormente propenso a rispondere): infatti in indagini condotte online il tasso di risposta talvolta è molto basso (Brøgger et al., 2007; Truell et al., 2002), e questo può facilmente portare a processi di auto-selezione nella partecipazione all’indagine. Inoltre, la semplice autosomministrazione di un questionario online non può in alcun caso consentire diagnosi attendibili. Infine, l’assenza quasi totale di valutazioni precedenti non consente di stabilire se il malessere riferito esisteva già prima dell’insorgenza della pandemia (nel qual caso non è possibile ascriverlo all’evento) o se è sorto solo dopo l’inizio del COVID-19.

Tra i pochissimi studi longitudinali, condotti su un campione di persone valutate ripetutamente nel corso del tempo, vi è lo studio tedesco “LOngitudinal Resilience Assessment” (LORA), diretto dal Prof. Andreas Reif, Direttore della Clinica Psichiatrica dell’Università di Francoforte e realizzato in un campione studiato in maniera approfondita a partire dal 2017 (Chmitorz et al., 2020). Iniziato il lockdown, gli autori del progetto hanno cercato di valutare le conseguenze della pandemia in 523 partecipanti in buona salute, somministrando ad essi dei questionari settimanali aggiuntivi riguardanti varie aree del funzionamento psichico. In questo campione, nelle 8 settimane studiate, è stato possibile identificare tre gruppi: un gruppo, largamente maggioritario (84%), ha mantenuto o migliorato la propria ‘salute mentale’, un secondo gruppo, pari a circa l’8% del campione, ha mostrato un forte malessere iniziale, aumentato fino alla terza settimana e tornato poi a livelli normali, mentre un terzo gruppo (dagli autori definito come particolarmente vulnerabile, e comprendente l’8% del campione) ha invece presentato un deterioramento significativo delle proprie condizioni psichiche a partire dalla quarta settimana in poi. Un evento come la pandemia, con il lockdown e tutte le misure di contenimento adottate, ha effetti quindi molto diversi su persone mentalmente sane.

RESILIENZA DOPO LE CATASTROFI

I risultati dello studio LORA sono sintonici con quelli ottenuti in studi condotti su popolazioni esposte a gravi eventi traumatici: in questi gruppi non si assiste necessariamente a condizioni di marcato malessere psicologico, o addirittura di disturbi mentali manifesti, con la sola eccezione dei disturbi post-traumatici da stress, che peraltro riguardano solo una piccola percentuale della popolazione, caratterizzata da particolari fattori di rischio (aver sofferto di gravi lesioni fisiche, aver sperimentato un senso imminente di morte, aver assistito alla morte, soprattutto violenta, di persone care, ecc). Esemplare a questo fine un’ampia ricerca condotta da due autorevoli psichiatri statunitensi nei 6 mesi successivi all’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre 2001, un evento epocale di rara gravità e di potenziale massimo impatto psicologico (Rosenheck REF). Gli autori hanno confrontato l’utilizzo di un ampio numero di servizi di salute mentale pubblici in 40 città americane, a cominciare da New York City, nei 180 giorni successivi all’attentato, con i 180 giorni precedenti: al contrario delle stesse attese dei ricercatori, non è emerso alcun aumento nell’accesso ai servizi di salute mentale, né ambulatoriali né ospedalieri, nei mesi post-attentato, ivi inclusa la popolazione di New York City.

Insomma, a far male spesso non è la “quantità” di stress a cui si è esposti, bensì il modo in cui esso viene processato mentalmente (mind-set). Situazioni stressanti possono infatti fornire opportunità di crescita e di cambiamento: si tratta della cosiddetta ‘ post-traumatic growth’ (chiamata anche ‘adversative growth’) discussa in un contributo appena pubblicato su JAMA (Olson et al., 2020): questa comprende 5 dimensioni: sviluppo di relazioni interpersonali più profonde, apertura a nuove possibilità, maggiore percezione di forza personale, maggior importanza per la dimensione spirituale e maggior apprezzamento della vita stessa. È quanto in campo clinico si osserva in molti casi di pazienti con malattie tumorali, nei quali l’accertamento di una malattia grave comporta una ridefinizione dell’importanza delle varie ‘aree’ o dimensioni che compongono il costrutto ‘qualità della vita’ (Fitzpatrick, 2018). Gli autori dell’articolo di JAMA opportunamente sottolineano che la ‘post-traumatic growth’ riguarda non solo gli individui, ma anche le organizzazioni: dopo un evento catastrofico, un’organizzazione ben funzionante dovrebbe apprendere delle lezioni ed innovare, a partire da queste, i propri stili organizzativi e comunicativi. Si tratta di una lezione quanto mai fondamentale per il Servizio Sanitario Nazionale: sarà in grado di introdurre tutti i cambiamenti resi necessari dall’esperienza drammatica di questi mesi? Sapranno i professionisti del SSN adeguarsi alle nuove sfide?

GRUPPI AD ALTO RISCHIO DI MORBIDITA’ FISICA E PSICHICA

Mentre vanno interpretati con cautela i dati, provenienti da fonti disparate (e spesso metodologicamente molto deboli), relativi alla popolazione generale, vanno invece considerati con la massima attenzione due gruppi ad alto rischio di morbidità psichica: sono rappresentati da coloro che hanno sofferto di un lutto complicato e dai pazienti ricoverati in terapia intensiva o rianimazione, ad elevato rischio di morte. Nel primo caso, sono a tutti noti i tanti casi di familiari che non hanno potuto né assistere un proprio caro ospedalizzato, e poi deceduto, né organizzare le esequie del congiunto: è noto che, al di là dei molteplici significati umani e spirituali, le esequie rappresentano anche la maniera socialmente accettata di elaborare simbolicamente un lutto (Maitra, 2020). Per quanto riguarda i tanti pazienti COVID+ ricoverati in rianimazione, una condizione di grave pericolo per la propria vita, emblematicamente rappresentata da un ricovero in un reparto di rianimazione, rappresenta uno dei primari fattori di rischio per il disturbo post-traumatico da stress. Si tratta quindi di sottogruppi ad alto rischio, per i quali andrebbero pianificati interventi preventivi e di supporto adeguati.

Un recente, importante contributo, basato sull’analisi di enormi dataset elettronici (61 milioni di persone, 360 ospedali e 317.000 erogatori di servizi sanitari negli USA), ha inoltre dimostrato che persone con disturbi mentali sono a rischio molto più elevato di contrarre l’infezione da coronavirus, con valori di Odds Ratio, nel confronto con la popolazione generale, pari a 7,6 (IC 7,4-7,8) nel caso della depressione e 7,3 (IC 6,6-8,1) nel caso della schizofrenia; anche il tasso di morte era, in questi due gruppi clinicamente selezionati, doppio rispetto alla popolazione di confronto (Wang et al., 2020).

SUICIDI    

Non è possibile stimare oggi se la pandemia, con il conseguente lockdown e le pesanti implicazioni sociali ed economiche che quest’ultimo ha avuto, abbia prodotto aumenti nel tasso di suicidi (ed in quello relativo ai comportamenti suicidari, quali i tentativi di suicidio): la pubblicazione delle statistiche ufficiali relative ai suicidi ha un gap temporale di almeno un anno e mezzo rispetto al momento in cui l’evento ha avuto luogo. Per stimare quindi l’impatto complessivo della pandemia sui tassi dei suicidi in Italia bisognerà attendere almeno la fine del 2021.

Tuttavia, è possibile affermare con certezza che vi è una correlazione tra tassi di disoccupazione, recessione economica e tassi di suicidio: in tal senso la pandemia, con le conseguenze che ha già avuto e potrebbe avere in futuro in termini di perdita di posti di lavoro e di impoverimento per ampi strati di popolazione, potrebbe determinare un aumento nei tassi di suicidio. Uno studio inglese ha stimato infatti in circa 10.000 l’eccesso di morti per suicidio registrato in Europa e Nord America negli anni 2008-2010 a seguito della grande recessione economica di quel periodo (Reeves et al., 2015). Su questa base Ettman et al. (2020) hanno ipotizzato un possibile incremento dei tassi di suicidio dopo la pandemia causato dalle gravi problematiche economico-finanziarie createsi e dalle ripercussioni che queste potranno avere sui livelli occupazionali ed il benessere delle famiglie.

IL RUOLO DELL’INFORMAZIONE E LA ‘RISK COMMUNICATION’

Come affermato dal Direttore Generale dell’OMS Ghebreyesus, la pandemia ha generato anche una parallela “infodemia”. Questa è caratterizzata da un massivo carico di informazioni, in cui le informazioni accurate e scientificamente corrette si mescolano a notizie false, a disinformazione e a teorie cospirazioniste, mescolando quindi verità, verità parziali e falsità (Larson, 2020; Editorial, 2020). Alcune ricerche recenti hanno inoltre mostrato una correlazione tra la quantità di tempo trascorsa in contatto con vari tipi di mass-media (TV, social media, giornali, ecc) durante la pandemia e condizioni di malessere psichico (Liu & Liu, 2020; Hossain et al., 2020): l’essere esposti cumulativamente a notizie, racconti, descrizioni (vere, parzialmente vere o false) di un evento stressante come questo aumenta il rischio di soffrire emotivamente. Le autorità di sanità pubblica dovrebbero quindi mettere in guardia la cittadinanza da un’eccessiva esposizione alle notizie veicolate dai media circa la pandemia.

L’infodemia si è concretizzata anche in un numero incredibilmente elevato di pubblicazioni sottomesse a riviste scientifiche o a server di preprint, che spesso non hanno consentito alcun reale avanzamento delle conoscenze (Casigliani et al., 2020; Schillinger et al, 2020). Nel caso poi degli articoli pubblicati su server di preprint, si tratta di articoli non passati attraverso un’ordinaria peer-review, che possono quindi mettere in circolazione dati o notizie di dubbia validità, come è accaduto ad esempio nel caso dei trattamenti con idrossiclorochina e con plasma di persone guarite, promossi inizialmente proprio attraverso pubblicazioni preprint di questo tipo.

I media, peraltro, sono uno dei canali privilegiati attraverso cui promuovere e sostenere i cambiamenti nei comportamenti individuali necessari in una condizione eccezionale. E i cambiamenti comportamentali richiesti dalla pandemia (distanziamento fisico; mascherine; igiene personale; misure restrittive nella mobilità, ecc) rappresentano una sorta di modello prototipico di un’area spesso sottovalutata nella medicina clinica, ossia come far sì che gli schemi comportamentali individuali e lo stile di vita mutino e si adattino alle necessità del momento. In un articolo di grande importanza apparso di recente su Nature Human Behavior, West e colleghi (West et al., 2020) hanno descritto in maniera esemplare la complessità correlata ai cambiamenti richiesti, che coinvolgono una numerosa serie di fattori (preparazione al cambiamento richiesto, persuasione, erogazione di incentivi, coercizione, training, restrizione, ristrutturazione comportamentale, uso di modelli comportamentali e abilitazione al cambiamento) dalla cui interazione deriva il raggiungimento o meno dell’obiettivo desiderato. Si tratta delle stesse dimensioni che entrano in gioco quanto chiediamo ai nostri pazienti di smettere di fumare, di cambiare il regime dietetico, di aumentare il livello di attività fisica, di assumere i trattamenti prescritti, ecc. E queste dimensioni sono modulate da 3 variabili centrali: capacità (di attuare i cambiamenti richiesti), opportunità (di metterli in atto) e motivazione (ad adottare i comportamenti richiesti piuttosto che altri). Questo modello riconosce anche l’importanza dell’imitazione e dell’adesione a modelli comportamentali condivisi, ed è questo che spiega perché è importante che i cambiamenti desiderati vengano prima di tutto adottati da figure-leader, il cui comportamento è preso a modello.

Come sottolinea Glik (2007) in una splendida review sulla risk communication, è la percezione del rischio, e non il rischio di per sé, che guida il comportamento degli individui esposti, ed è il rischio percepito che modula i comportamenti protettivi. Poiché tale percezione è largamente costruita sulla base delle informazioni ricevute dai media, ecco perché è cruciale che la comunicazione sia basata su evidenze ottenute con procedure adeguate (come quelle oggi universalmente accettate in campo scientifico), sia chiara, semplice e riesca a differenziare fatti importanti da quelli non importanti (Glik, 2007). Glik (2007) sottolinea anche che proprio gli eventi di tipo pandemico-infettivo, a causa dell’elevato livello di incertezza ad essi sotteso, fanno sì che le persone tendano a reagire in maniera emotivamente molto ‘carica’, il che aumenta il rischio di distorsioni cognitive, e quindi di valutazioni e decisioni erronee. Ciascun soggetto a cui sono indirizzati i messaggi dovrebbe ricevere le informazioni necessarie, comprenderle, capire che il messaggio riguarda anche lui/lei, comprendere che si è a rischio se non si adottano adeguati comportamenti protettivi, identificare le azioni da mettere in atto, ed essere in grado di farlo (Glick, 2007). Si tratta quindi di una complessa sequenza di passaggi percettivi, cognitivi e comportamentali, ciascuno dei quali può ostacolare l’adozione dei comportamenti desiderati.

Affinchè i messaggi inviati dalle autorità interessate siano accettati e condivisi, è indispensabile che le istituzioni siano in grado di creare un clima di fiducia (trust) verso le decisioni adottate. Ma la fiducia (trust) viene incrinata da una serie di fattori, tra i quali Covello et al. (2001) citano i seguenti: disaccordo tra gli esperti, mancanza di coordinazione tra gli enti preposti alla gestione del rischio, scarsa sensibilità da parte delle autorità competenti circa la necessità di un effettivo dialogo, ascolto e partecipazione pubblica, riluttanza a riconoscere il rischio, riluttanza a condividere o rivelare informazioni in maniera tempestiva ed irresponsabilità o negligenza nell’assunzione delle proprie responsabilità. E’ superfluo aggiungere che tutte queste variabili, in misura maggiore o minore e variabile nel corso del tempo, sono state all’opera nel corso della recente pandemia  in tutti i paesi teatro dell’evento.

CONCLUSIONI

Come si è cercato di dimostrare in questo breve contributo, le problematiche psisocociali e di sanità pubblica emerse nel corso della pandemia da coronavirus sono non meno rilevanti ed urgenti di quelle strettamente cliniche e biologiche, e modulano l’ampiezza e la gravità con cui queste ultime si manifestano. Allo scopo di analizzare in maniera standardizzata come questo complesso intreccio di variabili si manifestano nei vari paesi, l’Ufficio Europeo dell’O.M.S. ha avviato una consultazione in 26 paesi europei, dal titolo “Monitorare la conoscenza, la percezione del rischio, i comportamenti preventivi e la fiducia (‘trust’) per un’efficace  risposta alla pandemia” (si veda https://www.euro.who.int/en/health-topics/health-emergencies/coronavirus-covid-19/publications-and-technical-guidance/risk-communication-and-community-engagement/who-tool-for-behavioural-insights-on-covid-19 ). Ai paesi già inclusi nell’indagine si è aggiunta di recente l’Italia, con tre enti partecipanti (IRCCS Fatebenefratelli, Istituto Superiore di Sanità e AUSL di Modena): grazie al supporto di una fondazione, la Doxa invierà ad un panel nazionale stratificato per sesso, età, occupazione e area geografica di residenza il questionario sviluppato e testato dall’O.M.S.: le informazioni che deriveranno da questo studio forniranno elementi di conoscenza significativi per meglio orientare le risposte di sanità pubblica alle sfide poste dalla pandemia.

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